Angoscia in caserma
Il male cominciò a nascergli così: vedere il cavallo di frisia per la scala, carico di filo spinato, e pensare che contenesse un significato minaccioso e allusivo sul suo avvenire. Ma già prima, più d’una volta, la vista della sua branda era bastata a tormentarlo, di quella sua sgraziata, scheletrica branda, che pareva volesse annunciare qualcosa, qualcosa che lui non capiva, un messaggio di disperazione, d’impotenza. Quattro cinque sei brande, poi la sua, poi altre due tre quattro brande. Erano pensieri senza senso: se ne accorse.
Eppure, una due tre brande, forse gennaio febbraio marzo, giugno, luglio, cosa gli era successo in luglio? poi quella branda vuota, perché? agosto, settembre, ottobre, novembre. Qualcosa finiva a novembre: la guerra? la vita?
E bisognava poi tener conto che le prime cinque brande erano degli anziani, dei soldati che si erano presentati col bando, alcuni all’otto settembre non avevano nemmeno smesso di fare il militare, e ora montavano di guardia e giravano armati; nelle altre brande invece i renitenti, i rastrellati come lui, che spazzavano e trasportavano immondizie. Poi c’era il mistero di quella branda vuota e chiusa, agosto, aprile? dove stava certo nascosta qualcosa sperata o temuta, la pace, la morte, ma ancor più qualcosa di segreto e ostile, che non si poteva comprendere.
Oppure, a cominciare dal fondo, gli anni di guerra: quaranta, quarantuno due tre quattro, perché quarantaquattro vuoto?, e lui quarantacinque: che senso c’era in tutto questo?
Si sdraiò sulla branda chiusa, la schiena sui ferri delle sponde, i piedi sulla catena che la teneva legata. Adesso avrebbe pensato con calma, ragionando: non c’era motivo d’angosciarsi tanto, bastava attendere con pazienza che l’affare dei suoi si risolvesse, che suo padre fosse liberato, poi disertare, tornare in banda, per il momento cercare d’ottenere una convalescenza, un imboscamento, una maniera legale per «sganciarsi», stare con gli occhi aperti per non farsi mandare «di sopra» con la compagnia dei rastrellamenti, e al minimo accenno d’un trasferimento a Nord o a Sud essere pronto alla fuga, andasse come voleva.
Bastava questo: e poi il carretto per trasportare la spazzatura aveva un’aria sgangherata e amica, insegnava a prender le cose in ridere, anche se era penoso farle, ché poi tutto si sarebbe risolto. Alt, si tornava da capo: il male dei simboli, la via della pazzia.
Il male, a rifletterci, gli era cominciato in prigione, la notte dopo esser stato preso: il rumore del mare, fuori, come un ronzio d’aeroplani, la speranza e la paura d’un bombardamento che li avrebbe liberati o sepolti. Ma era il mare confuso, senza ritmo, senza sfogo; la vita, una cosa cieca e caotica. Da allora in poi le cose e gli uomini non furono più loro stessi ma simboli.
Le celle della prigione, gli uffici squallidi, i volti nervosi degli ufficiali tedeschi e fascisti, gli alberghi fastosi e devastati gremiti dalla folla spaurita degli ostaggi, la caserma infine con la sua angosciosa geometria di scale, corridoi e camerate deserte, i suoi abitatori ottusi e pallidi, tutte maglie di una rete di disperazione che stringeva il mondo.
Ora i vetri della grande finestra erano quadrati e dipinti di turchino, ma il terzo della seconda fila mancava, il penultimo aveva una grossa fenditura: e questo era doloroso, terribile. Impossibile resistere alla tentazione di seguire quella mosca che passava da un vetro all’altro e di chiedersi dove si sarebbe fermata. Era lo stesso calcolo che si riproponeva sempre. La fine della guerra e la morte. Ma sarebbe arrivata prima l’una o l’altra?
Gli uomini della caserma erano resi solidali da una comune viltà, menti torpide d’ignoranza, volti camusi, obbligati a trattare ogni cosa con termini volgari per avvilire se stessi. I loro discorsi vertevano sulla paga, sulla vita buona che si faceva nella «repubblica», migliore d’ogni altra vita possibile allora, e sul fatto che la vita della caserma e quella in particolar modo della compagnia-deposito era migliore che in ogni altro reparto. Ingigantivano questo loro amore alla paga e alla vita della compagnia quasi per convincersi che non potevano fare a meno di restare là dentro.
Il ragazzo rastrellato, a vivere in mezzo a loro, sentiva questo grosso fiato di viltà affoltirglisi intorno, congiungersi a una sua vena segreta, e il rampicante polveroso che cresceva a tappezzare le mura del cortile tappezzava lui pure, era un insinuarsi di solidarietà tra lui e loro, che l’inchiodava a quelle mura, a quelle brande.
Al piano di sopra stava la compagnia dei rastrellamenti, ovvero l’incoscienza. Avevano rancio migliore, migliore paga, licenze frequenti. Tornavano a tutte le ore facendo baccano per le scale; dal piano di sotto si sentivano spesso cantare e suonare dischi. Da ogni loro parola, da ogni loro gesto spirava l’incoscienza, un’incoscienza voluta, mantenuta a forza, costretta a regola di vita, per non pensare a quello che facevano. Spesso uscivano la mattina presto, inquadrati, qualcuno armato di mitra; tornavano la sera o l’indomani; non combattevano mai, né incontravano «ribelli»; ma saccheggiavano pollai e accalappiavano sempre qualche sparuto renitente, che veniva a ingrossare la compagnia del piano di sotto.
Nella compagnia-deposito, quelli del piano di sopra erano odiati anche dagli anziani; la loro superficialità era guardata con astio da chi passava le ore a calcolare e a discutere sui guadagni e sui pericoli; l’invidia fioriva i loro vantaggi di previsioni sinistre. Allora cominciavano nella camerata le discussioni su quelli della montagna e sugli inglesi, su chi sarebbe arrivato per primo, e che se arrivavano prima quelli della montagna, forse tutti loro soldati sarebbero stati uccisi, ma loro non facevano niente di male, e quindi non era giusto; invece gli inglesi, se fossero arrivati per primi, avrebbero trattato meglio loro soldati che i ribelli, e li avrebbero tenuti a fare i soldati con loro, e avrebbero messo i ribelli in galera.
Poi, finita la guerra, molti di essi sarebbero tornati chi in Sicilia, chi in Calabria, chi nelle Puglie, alle loro case lasciate per chi da venti, per chi da quindici mesi, distanti come al di là d’un buio tunnel lunghissimo in cui una talpa si muoveva lenta, scavando per ricongiungerli, la guerra. Sempre, a quel punto, cominciavano le congetture su quando la guerra sarebbe finita e tutti convenivano nel dire che sarebbe durata ancora molti anni; e il mulattiere dalla faccia gialla usciva a dire che non sarebbe finita mai, ma sarebbe venuta prima la fine del mondo, e almanaccava tutta una storia in cui Gesù Cristo e la colomba di Noè emergevano dal suo incomprensibile urlìo.
Gran parte degli anziani era formata da meridionali, incalliti dagli anni di esercito in una loro torpida astuzia, usi a lasciarsi sballottare d’Africa in Russia con una sorta di guardingo fatalismo. I settentrionali che erano in mezzo a loro avevano imparato a usare i loro modi di dire e li ripetevano con monotonia esasperante. Il ragazzo rastrellato aveva rabbia a sentirli interloquire nelle loro discussioni incomprensibili. «Se rimango ancora un poco con loro, - pensava, - capirò i loro ululati, prenderò anch’io l’abitudine di dire “minchia, signor tenente” e “sticchio” e “soreta”». Questo pensiero bastava a farlo rabbrividire, alzare dalla branda e vagare per i corridoi e i magazzini.
Ma gli elmi allineati, a pile, erano inutili e stupidi come il mulattiere dalla faccia gialla.
I discorsi preferiti dei soldati erano quelli sulla roba che avevano portato via l’«otto settembre», e su come avevano fatto a trafugarla, a salvarla dagli ufficiali e dai tedeschi, e sui soldi che s’erano fatti vendendola. Il mulattiere dalla faccia gialla, che all’otto settembre non aveva portato via neanche una coperta, stava zitto, con vergogna, mentre un ex cameriere sanremese raccontava di com’era scappato d’in Francia con dieci sterline d’oro nel sospensorio. Ma l’invidia si tramutava in odio verso gli ufficiali che avevano potuto far sparire la cassa dei reggimenti, senza starla a dividere coi soldati. Quando verrà il prossimo «otto settembre», - diceva ognuno, - staremo più all’occhio. - E facevano progetti e castelli in aria sulla roba che avrebbero potuto portar via il secondo «otto settembre», sui milioni che avrebbero potuto fare.
Così era la loro vita: un seguito d’anni grigi come una fila in marcia, con un «otto settembre» ogni tanto, un rompere le righe, un piglia-piglia, un fuggi-fuggi cogli zaini carichi di roba del Governo, per tornare poi in fila, ad attendere un altro “otto settembre” e ripetere il gioco. Il ragazzo rastrellato stava sdraiato sulla branda chiusa e scomoda e i discorsi dei soldati erano polverosi sopra di lui come le ragnatele del soffitto.
Il suo ricordo andava ad altri uomini, ad altri discorsi, discorsi di uomini seduti intorno a fuochi di uomini con suole legate col fil di ferro, con strappi ai calzoni cuciti col fil di ferro, con facce ispide di fil di ferro nelle barbe, uomini con arnesi di ferro nelle mani: uomini con sten, uomini con mitra, uomini con machine. Ogni tanto un nome di quegli uomini risuonava nei discorsi dei soldati, con accento di mistero, di leggenda, di paura: solo per lui quei nomi avevano un volto, una voce. Avrebbe voluto gridare sulle facce pavide dei soldati: «Sì, io conosco il Lungo! e Bill! e Mingo! e il Zanzara! Tutti li conosco! Quindici giorni fa sedevo vicino al fuoco con Mingo che voi vi sognate alla notte! Fumavo una sigaretta a mezzo con Strogoff, quello che scese fin qui in città a liberare i carcerati, mettendovi spavento per un mese! Mangiavo le frittelle insieme a Sceriffo che non ha più rigatura nella canna della pistola a furia di spararvi addosso! Alla battaglia di Baiardo portavo le munizioni a Bufera! Io sono uno dei loro!»
Questo avrebbe voluto gridare. Io sono uno dei loro. Ma allora, se era uno dei loro, cosa faceva lì in mezzo? E con slanci violenti la memoria si riproponeva freneticamente scene e sensazioni per risvegliare un qualcosa sopito in lui, forzarlo a uscire dal torpore.
La carrozzabile, in basso, con la fila dei tedeschi che sale guardinga, e il battito del cuore contro il calcio del mitragliatore, attendendo, e ogni cespuglio che fiorisce d’occhi in agguato. Poi un crepitare fitto che dà il via, un polverone dorato che s’alza sulla carrozzabile, sui tedeschi che s’abbattono, che si gettano fuori strada, comandi urlati dalle voci rauche dei capibanda che s’incrociano con quelli bestemmiati in tedesco, con le voci venete e lombarde dei bersaglieri, raffiche, ta-pum, bombe a mano, partigiani stracciati che dilagano sulla strada a far bottino verso gli autocarri grondanti di sangue.
Di sentinella la notte, entrare un momento nel casone, ad accendere la sigaretta nella brace semispenta, ad attizzare il fuoco per scaldarsi, mentre i compagni russano sulla paglia e si grattano nel sonno: poi, fuori, attendere una stella cadente per affidarle un pensiero, sempre lo stesso, mentre lontani, spietatamente fermi brontolano i cannoni del fronte.
A sera, quando nella caserma si accendevano le luci e solo i piantoni restavano nelle camerate fredde, il ragazzo rastrellato pensava alla nebbia fredda che sale ogni sera sui monti, ai prigionieri fascisti scalzi, con un riso di paura in mezzo ai denti, che vorrebbero rendersi utili, pulire le patate, andare per acqua, per legna: vengano con noi per legna, vengano nel bosco, nella nebbia, vadano avanti nella nebbia che attutirà lo sparo.
Altri uomini, altri discorsi sui monti, uomini che camminano, digiunano, sparano, ma non per obbligo o paga, o divertimento a quello che fanno, uomini diventati cattivi a furia d’essere buoni, uomini che adesso, a sera, cantano intorno al fuoco delle castagne canzoni imparate in galera,- seri come a inni di chiesa. E discorsi di anziani sulla guerra di Spagna, su scioperi con spari di soldati, discorsi di vita segreta e di galere, discorsi di uomini che soffrono la legge e vogliono rifarla, non come cani alla catena, non come lui adesso.
E la memoria, appena posti, ribeveva i ricordi, con paura quasi, come potessero essere visti dagli altri, dagli ufficiali, tradirlo, denunziare lui, «il ribelle». La caserma, enorme monumento dell’ingiustizia diventata legge, incombeva ancora su di lui con le sue scale di pietra, le sue porte scrostate, i suoi uffici squallidi, i suoi cavalli di frisia, a condannare quegli imprudenti slanci della memoria.
Gli altri rastrellati si facevano sempre più torpidi e più grigi anch’essi, pieni d’accettazione, d’indifferenza, e ognuno negli interrogatori aveva una scusa alla propria condizione di renitente, un margine di legalità cui aggrapparsi: un tesserino della “Todt” scaduto, l’aeronautica che non era stata chiamata, la convalescenza della pleurite. Lui solo restava come nudo nella sua grezza condizione d’eslege, e si sentiva intorno il tepore ovattato della legalità e uomini che ci si crogiolavano, già contenti.
La caserma lo incatenava nella geometria dei corridoi, delle scale, delle terrazze; anch’egli tra poco avrebbe pensato che finché il governo paga è meglio esser dalla parte del governo ed evitare fastidi alla famiglia, che nella «repubblica» si sta meglio che nel «regio» perché non c’è bisogno di star sull’attenti davanti agli ufficiali, si mangia a mensa e si possono vendere le coperte da casermaggio senza pagare l’addebito; anch’egli tra poco avrebbe riso alle battute oscene del tenente cogli occhiali, quando canzonava il mulattiere dalla faccia gialla.
I partigiani svaporavano nella sua memoria come un mito, un ricordo di antiche età dell’uomo; titani generatori di nuove leggi, distanti da lui quanto la sera dalle caserme apparivano lontane le montagne, di là dai vetri rotti delle grandi finestre. Il muro che separava la caserma dalla campagna degradante a terrazze era il confine di due categorie dell’anima. La palizzata che il colonnello faceva alzare per prevenire gli assalti dei ribelli era un muro di ferro che si alzava nella sua coscienza.
Poi vennero giorni folti d’ansia in cui serpeggiavano voci di trasferimento, di liste che qualcuno aveva visto in fureria, di rastrellati che verrebbero mandati a Monza o a Treviso o a Bolzano. Lui sentiva il cerchio stringerglisi intorno, avvicinarsi il giorno in cui il suo istinto di conservazione l’avrebbe forzato a uscire dal torpore, gli avrebbe dettato il momento più propizio alla fuga.
Attendeva passivamente, sentendosi ogni giorno di più come il mozzicone sul pavimento della camerata, spinto a colpi di scopa. E le cose della caserma gli si proponevano come margherite da sfogliare per carpire un segreto, come oroscopi ambigui sul suo avvenire, il cavallo di frisia per le scale era dentro di lui, gli oggetti e i volti si susseguivano ai suoi occhi come capitoli di una storia che non si sapeva dove e quando sarebbe finita.
Dopo vi furono le giornate tese in cui pareva che il trasferimento fosse imminente e si dicevano i nomi della prima lista, e il suo non c’era. Perché c’era un’altra lista, di quelli che sarebbero partiti dopo una quindicina di giorni, e lui era tra questi. Così il risveglio dall’angoscia si rimandava, c’era ancora tempo di sperare alla Grande Avanzata che avrebbe liberato tutti dall’oggi al domani, al Grande Bombardamento che avrebbe ucciso tutti gli abitanti della caserma, lui escluso, alla gamba che si sarebbe rotto per caso e l’avrebbe tenuto all’ospedale fino alla fine della guerra, a suo padre che forse sarebbe stato liberato e avrebbe potuto mettersi al sicuro dalle rappresaglie con tutti i suoi...
Il mattino della partenza del primo scaglione, tre o quattro mancavano all’appello, ragazzi quieti, rassegnati, che non ci si sarebbe aspettato scappassero. I rimasti, sorvegliati da qualche anziano armato che li avrebbe accompagnati di scorta, sedevano a capo chino nella camerata aspettando il camion, un velo di pianto in fondo agli occhi e alle voci. Egli girava in mezzo a loro; sguernite dei teli le brande erano presagi ansiosi ed inquieti.
Fu allora che entrò il tenente con gli occhiali, grassa faccia camusa, gli faceva cenno di avvicinarsi, certo voleva mandarlo a spazzare le scale. Disse: - Su, presto, prepara la tua roba, parti anche tu, è venuto l’ordine dal comando.
Un velo di sangue agli occhi, poi tutto fu spaventosamente lucido, come in un mondo di specchi: il tenente, le parole che aveva dette, le inutili proteste di lui, i compagni rassegnati, la camera squallida, il suo arraffare la roba con mani tremanti e metterla nello zaino, la sua storia, la sua debolezza, la tristezza del suo destino, ogni cosa era quella che era; solo quella, spietatamente quella.
Il male dei simboli lo riprese nel viaggio in camion, ma senza sollievo. Il camion era il mondo e la vita, con uomini diversi, spietati l’uno dell’altro, borghesi che parlavano delle cose che avrebbero fatte finita la guerra, avrebbero comprato la macchina e non più viaggiato in camion, il tenente con gli occhiali che rideva dicendo: - Se adesso scoppiasse la pace! - con un tono di timore nel suo accento ignorante di terrone.
Il grasso ragazzotto di Oneglia che a ogni fermata si guardava intorno fiutando il modo di scappare era una parte di lui, del suo animo ancora cautamente desto, il soldato veneto anziano che gli stava sempre dietro col moschetto imbracciato (Cecchetti si chiamava quella carogna) era pure una parte di lui, la sua viltà dominante. Gli altri compagni di sventura, carichi di rassegnazione desolata, erano il peso della sua impotenza. E in mezzo a tutti, stupido e beato anche nel nome, la bestia umana grassa ed incosciente, l’occhialuto tenente Coronati che scherzava in terrone con gli autisti.
Poi il guasto al camion suonò come un avvertimento. L’ultimo simbolo fu l’alberghetto dove si fermarono a far colazione, con linde stampe inglesi alle pareti, una atmosfera cloroformizzata da sala operatoria, un limbo dove le anime attendono il giudizio.
Quando furono condotti a piedi al paese vicino e, poiché il camion tardava a venir riparato, si sparpagliarono un poco a comprar da mangiare nelle botteghe, l’incubo cessò a un tratto: la strada che portava nei campi fu una strada che portava nei campi, il veneto voltato indietro ad aspettare gli altri fu il veneto voltato indietro, il ragazzo grasso di Oneglia cui lui chiese: «Scappiamo»? e che rispose «Alé,» fu il ragazzo grasso di Oneglia, la terra che correva sotto i loro passi fu la terra che correva sotto i loro passi, l’angolo di muro che li separava dalla vista degli altri fu un angolo di muro, la corsa per la collina fu una bella, radiosa, ansiosa corsa per la collina.
La prima frase che disse all’altro, camminando ormai soltanto in fretta per un viottolo che portava a monte, fu: - Adesso posso dirtelo, io sono un partigiano. - Anch’io, - rispose l’altro. - Di che banda sei? Che nome hai? - Si dissero i nomi di battaglia, le bande in cui erano stati, i compagni conosciuti, le azioni cui avevano preso parte.
Egli andava adesso assieme all’altro per la collina, col cappotto militare sbottonato; contento, contento anche se potevano riprenderlo e fucilarlo da un momento all’altro: e la caserma grigia non esisteva più per lui, sommersa nel fondo della coscienza. Le erbe e il sole e loro che camminavano coi cappotti sbottonati in mezzo alle erbe e al sole, erano un simbolo nuovo, arioso ed enorme, erano quello che spesso, senza capire, gli uomini dicono libertà.